moretta

giovedì 24 aprile 2014

Annunciazione




Nel 1525 il ricco banchiere fiorentino Ludovico Capponi acquistò una cappella nella chiesa di santa Felicita vicino al Ponte Vecchio e ne affidò la decorazione ad un artista trentenne già noto in città, Jacopo Carucci detto il Pontormo. Allievo di Andrea del Sarto e di Fra Bartolomeo il Pontormo si dimostrò fin da subito un vero e proprio genio del pennello, un genio tormentato, dal temperamento bizzarro, difficile e non troppo malleabile. Vasari scriveva di lui: "alla stanza dove stava a dormire e talvolta a lavorare si saliva per una scala di legno, la quale, entrato che egli era, tirava su con una carrucola acciò che niuno potesse salire da lui senza sua voglia o saputa". Anche in un diario oggi conservato alla Biblioteca Nazionale di Firenze e scritto da Jacopo tra il 1554 e il 1556, emerge una personalità singolare, misogena, diffidente, ipocondriaca, a tratti disturbata.
Poco prima di ultimare quello che ancora oggi è considerato una dei suoi maggiori capolavori, la pala con la Deposizione, da collocarsi sull'altare della cappella Capponi, nella parete a fianco, quella della controfacciata della chiesa di santa Felicita, Pontormo iniziò l'affresco con l'Annunciazione a Maria. Com'era sua usanza l'artista lavorava completamente nascosto dietro una copertura lignea, nessuno poteva vederlo mentre dipingeva eccetto il suo allievo e collaboratore Agnolo Bronzino che diventerà uno dei maggiori pittori durante il periodo Granducale e ritrattista ufficiale della famiglia Medici. 
I due personaggi evangelici sono separati da una vetrata e da un reliquiario in pietre dure eseguito nel Seicento. E' il momento esatto in cui l'Angelo sta annunciando la volontà di Dio e i suoi occhi sono rivolti alla finestra dalla quale la luce divina sta entrando; è sospeso da terra, la sua veste è leggera, di un caldo color rosa e ricami dorati, ha una fascia bianca in vita e sulle spalle un vaporoso mantello arancione gonfiato e mosso dalla brezza della discesa. Maria si volta, non sembra spaventata ma sorpresa, ha una mano posata sull'altare davanti al quale stava pregando, l'altra regge il manto azzurro; la solidità della sua volumetria rimanda alle figure michelangiolesche.
Da questo momento in poi Michelangelo diventerà la sua ossessione, Jacopo passerà anni a studiare le sue opere allo scopo di superare il grande genio ma non rimase mai soddisfatto dei risultati ottenuti piombando nella frustrazione.

giovedì 27 marzo 2014

La rivalità che generò un opera d'arte




La maggior parte dei ritratti del Quattrocento fiorentino appartengono alla seconda metà del secolo, le opere pittoriche precedenti, risalenti cioè alla prima metà e raffiguranti i personaggi della ricca borghesia cittadina e i loro familiari, adornati con gioielli e abiti sontuosi, sono piuttosto rari. Gli storici dell'arte si sono chiesti come mai questa mancanza di ritratti nel primo periodo del Rinascimento e si è supposto che ciò sia dovuto ad un episodio accaduto a Firenze dopo il 1420. 
Il ricco banchiere Palla Strozzi commissionò a Gentile da Fabriano nel 1423 una grande pala d'altare con l'Adorazione dei Magi da porsi nella cappella di famiglia a Santa Trìnita. Palla era un uomo colto, collezionava libri rari, conosceva il greco e il latino ed era ricchissimo. Per suo volere il pittore avrebbe dovuto riproporre nella scena sacra molti degli oggetti di oreficeria e le preziose stoffe di cui era il possessore. E infatti tutto questo compare: le armi finemente cesellate, le stoffe broccate e tessute con fili d'oro e d'argento, i ricchi finimenti dei cavalli, vasellame con pietre preziose. Questo sfoggio di ricchezza, che era visibile a tutti dato che la pala era esposta in una chiesa, ai fiorentini non piacque per niente e ancora meno piacque alle famiglie rivali degli Strozzi, prima fra tutte quella dei Medici. Palla già sessantenne, una bella età per l'epoca, si ritrovò ad un certo punto schierato tra coloro che si opponevano a Cosimo de Medici, il Vecchio; questi era riuscito di fatto ad assicurarsi il potere su Firenze piazzando uomini chiave alla guida degli uffici della Repubblica fiorentina. L'opporsi al Medici fu fatale per Palla, la vendetta di Cosimo si abbattè su di lui inesorabile. Con l'appoggio del popolo e delle autorità cittadine Cosimo riuscì a far condannare Palla all'esilio. Nel 1434 il banchiere partì per Padova, non riuscì a tornare mai più a Firenze perchè Cosimo fece in modo di rinnovargli la condanna di anno in anno. Questo episodio sarebbe servito da monito per le altre ricche famiglie che abitavano Firenze a non sbandierare troppo la propria potenza economica. 
Rimane la bellissima pala d'altare commissionata da Palla a Gentile da Fabriano, oggi conservata agli Uffizi, ricca di oro, di personaggi paludati con le splendide stoffe broccate e ricamate prodotte in quegli anni a Firenze e vendute a prezzi stratosferici in tutta Europa, e infine il vasellame prezioso utilizzato di certo sulla tavola imbandita dove la famiglia Strozzi si radunava prima che la furia di Cosimo si abbattesse su di essa.
   

giovedì 6 marzo 2014

Ecce Homo



“Io Michel Ang.lo Merisi da Caravaggio mi obbligo di pingere al Ill.mo S [Ignor] Massimo Massimi p [er] esserne statto pagato un quadro di valore e grandezza come quello ch’io gli feci già della Incoronatione di Crixto p [er] il primo di Agosto 1605. In fede ò scritto e sottoscritto di mia mano questa questo dì 25 Giunio 1605. Io Michel Ang.lo Merisi”
E' la nota autografa, datata 25 giugno 1605, che attesta la commessa che il pittore Michelangelo Merisi detto il Caravaggio ottenne dal cardinale Massimo Massimi. In questo documento (uno dei pochi che ci sono pervenuti dell'artista) Caravaggio si impegna ad eseguire entro il I agosto di quell'anno, quindi in pochissimo tempo, una grande tela raffigurante l'Ecce Homo.
 “Ecco l’Uomo” così Ponzio Pilato, prefetto romano della Giudea fra il 26 e il 36, si sarebbe espresso nel mostrare al popolo Gesù dopo il processo, con i segni della flagellazione. Ma il Cristo di Caravaggio, dal volto delicato e lo sguardo ormai rassegnato rivolto in basso, non mostra alcuna ferita, solo un piccolissimo rivolo di sangue sulla fronte dove gli è stata apposta la corona di spine. La luce che proviene alla sua destra lo avvolge interamente, essa non è luce solare ma presenza divina: Dio si manifesta, mostra e offre al mondo il suo unico figlio quale agnello sacrificale per mondare i peccati degli uomini. Un inusuale Ponzio Pilato, vestito in abiti seicenteschi e dai tratti quasi caricaturali, guarda lo spettatore indicando il Cristo. Le sue mani, dipinte di scorcio, imprimono alla scena una straordinaria profondità e ad esse spetta il compito di parlare, di annunziare "Ecco l'Uomo", più dello sguardo. Inusuale anche il gesto, quasi di rispetto, del carnefice che dopo aver incoronato Gesù di spine lo copre col manto e gli parla sommessamente, in modo pacato; nel suo volto non c'è cenno di derisione ma di pietà. Forse il primo passo verso la sua conversione.

sabato 8 febbraio 2014

In ricordo di Giovanna



Nel 1485 Giovanni Tornabuoni, direttore della filiale del banco mediceo, tesoriere di Papa Sisto IV nonché zio di Lorenzo il Magnifico, chiamò Domenico del Ghirlandaio ad affrescare la cappella maggiore di Santa Maria Novella a Firenze con scene della vita della Vergine e di San Giovanni Battista inquadrate da finte architetture. Fu stipulato un minuzioso contratto tra il committente e il pittore nel quale si descrivevano le singole scene, i colori e le dorature da utilizzare, il paesaggio e gli ambienti dove inserire le figure oltre ovviamente il compenso esorbitante di 1100 fiorini d'oro. Il lavoro doveva essere ultimato entro cinque anni. Il Ghirlandaio si avvalse dell'aiuto della sua bottega composta dai fratelli, Davide e Benedetto, e da promettenti artisti a cominciare da un ragazzino di nome Michelangelo Buonarroti.
Nella parete di destra il pittore descrive la nascita del Battista. Santa Elisabetta accoglie alcune donne venute a farle visita dopo il parto; è sdraiata su un grande letto intarsiato dall'alta spalliera, ha il capo velato e indossa una semplice veste celeste. In primo piano le due giovani balie, una allatta il bambino appena venuto al mondo, l'altra tende le mani pronta per riceverlo e lavarlo nella bacinella verde che si intravede ai suoi piedi. 
Dai numerosi libri di ricordi che ci sono pervenuti, per gli storici dell'arte importantissimi per ricostruire la vita quotidiana e le tradizioni delle ricche famiglie fiorentine, sappiamo che in occasione delle nascite era in uso donare alla puerpera un vassoio di legno dipinto con scene di vario soggetto sopra il quale si servivano le vivande chiamato "desco da parto". Un esempio è conservato al Metropolitan Museum di New York, raffigura il Trionfo della Fama ed forse opera di Giovanni di Ser Giovanni detto Lo Scheggia, fratello di Masaccio. Era il desco da parto donato in occasione della nascita di Lorenzo il Magnifico. La serva che vediamo nell'affresco mentre si avvicina ad Elisabetta ha in mano sicuramente uno di questi vassoi qui coperto da una tovaglia bianca.












Al centro, le tre donne in visita sono i ritratti di esponenti di casa Tornabuoni. La giovane che guarda verso l'osservatore è Giovanna degli Albizi, nuora del committente, morta poco più che ventenne di parto nel 1488 mentre si stavano svolgendo gli affreschi. Guarda l'osservatore con occhi triste, indossa una splendida sopravveste rosa ricamata in oro, detta "giornea", dalla quale si intravede l'abito vero e proprio, la "gamurra" di tessuto bianco con motivi floreali. Al collo un pendente in oro, rubini, zaffiri e perle a goccia che compare anche in un altro ritratto di Giovanna sempre del Ghirlandaio e conservato a Lugano. Tale coincidenza non è da ritenersi casuale e avvalora l'ipotesi della reale esistenza di questo gioiello. La giovane sposa di uno dei due figli di Giovanni Tornabuoni compare altre due volte negli affreschi della cappella, nella scena con la Nascita della Vergine e in quella della Visitazione, probabilmente un tributo della famiglia alla sua prematura scomparsa e desiderosa di perpetuarne così la memoria. Le due donne che le stanno dietro sono, in primo piano Lucrezia Tornabuoni, sorella del committente Giovanni e madre del Magnifico, l'altra la sorella Dianora.
Completa la scena l'entrata quasi di corsa di un'ancella che reca sul capo un vassoio di frutta e due fiaschi, altri doni per Santa Elisabetta.
Tutta quanta la scena è ambientata in un'elegante camera da letto e documenta i dettagli e gli arredi che dovevano essere realmente visibili nelle ricche dimore fiorentine: il bellissimo letto intarsiato, il pavimento in cotto e il soffitto cassettonato, il vassoio e la brocca lavorate a sbalzo che si vedono dietro la balia, la scatola e i due melograni sulla spalliera del letto, l'arazzo verde con elementi floreali che compare dietro la serva col desco da parto che serviva per riparare dall'umidità e nello stesso tempo arricchiva la stanza e quello, accanto, che copre la porta e che poteva essere arrotolato al bastone posto in alto nel caso occorresse entrare oppure uscire.
















martedì 14 gennaio 2014

Il giallo (forse risolto) della morte di Isabella




Terza figlia di Cosimo I de Medici e di Eleonora di Toledo, Granduchi di Toscana e signori di Firenze, Isabella aveva nel suo nome le migliori qualità: bellezza, intelligenza, modestia, eleganza, cultura. Dotata di un carattere brillante e indipendente e del raro dono della diplomazia era benvoluta da tutti. Letterati, musicisti e poeti le dedicavano le proprie opere e ne ricercavano i favori. Sembrava che il Fato le avesse destinato ogni fortuna ma non fu così. Fidanzata nel 1553 a soli undici anni a Paolo Giordano Orsini, duca di Bracciano, lo sposerà cinque anni dopo. In quell'occasione Alessandro Allori la ritrasse nel pieno della giovinezza, con indosso un elegante abito in velluto scuro e maniche ricamate in oro, adornata di perle e in mano un fazzoletto ricamato dal quale spunta un garofano, tutti simboli della sua condizione di sposa. Paolo fu per lei un pessimo marito: litigioso, infedele, amante del gioco e irrispettoso, non ebbe per lei né amore né affetto considerandola sempre una cosa imposta e non voluta o almeno così ci viene descritto dalle testimonianze dell'epoca. Una mattina d'estate del 1576 Isabella muore nella villa di Cerreto Guidi vicino Firenze e subito si sparge la voce che sia stata uccisa dal marito per punirla della tresca con un membro della sua stessa famiglia, Troilo Orsini, cugino di Paolo. Un delitto d'onore quindi. Ma pare non sia andata proprio così. 
Di recente Isabella Mori, studiosa romana, ha pubblicato le sue ricerche d'archivio che proverebbero una storia ben diversa. Prima di tutto lo scambio di lettere tra Isabella e Paolo, in totale 579 e tutte autografe, che dimostrerebbero che in realtà i due erano molto innamorati. "Io ti adoro, bella, e credi che quando mi morirò, ne' figli, ne' Stato, ne' amici, ne' dame, ne' niun'altra cosa mi si ricordarà, se non che io ti adoro". Così scriveva Paolo alla moglie in una delle sue ultime lettere. E ancora: "non ho che voi", le dice spesso, "voi che amo fin da fanciullo". Da altri documenti pare poi che la principessa medicea soffrisse di <oppilatione>, ovvero una ostruzione delle vie urinarie che le causava violenti febbri. Forse furono queste infezioni mal curate, dato che al tempo non esistevano gli antibiotici, a portarla alla morte. Le notizie del suo assassinio sarebbero state divulgate da detrattori, ambasciatori di potenze ostili, famiglie avversarie ai Medici e agli Orsini e da fuoriusciti fiorentini che contribuirono a creare il giallo storico della bella e sfortunata Isabella.



lunedì 13 gennaio 2014

La cosmesi nel Rinascimento



Anche nei tempi passati il sogno di allontanare dal proprio corpo i segni del tempo era pari a quello di guarire dalle malattie ma soprattutto nel Medioevo farsi belle davanti ad uno specchio era considerato un peccaminoso atto di lussuria, di vanità, di contraffazione della realtà. Durante le messe erano in molti a tuonare dai pulpiti contro profumi e scolli di abiti troppo profondi, di ranni per tingere i capelli e "biacche" che illuminavano l'incarnato, pratiche ritenute oscene, addirittura vere e proprie arti magiche in grado di cambiare il reale aspetto di una persona e punibili quindi col rogo. Eppure la cosmetica, come la farmacopea e la medicina, aveva radici antichissime. Egizi, Greci, Babilonesi, Romani ci hanno tramandato ricette per balsami capaci di ammorbidire la pelle e di creme depilatorie. Ma è nel Rinascimento che la cosmetica diventa un'attività seguitissima, ogni donna dell'alta società ha i suoi segreti di bellezza e per loro vengono create sempre nuove fragranze e gioielli per contenerle come i "paternostri profumati", impasti aromatici da porre all'interno di filigrane in oro, oppure guanti in pelle trattata con essenze durante la concia. Non rare le ricette che contenevano pietre preziose: per schiarire i denti per esempio si consigliavano rosmarino, acqua di rose, corno di cervo polverizzato nel mortaio assieme a perle e coralli rossi.
Caterina Sforza, signora di Imola, qui ritratta da Lorenzo di Credi, scrisse un vero e proprio ricettario e aveva fatto allestire un laboratorio alchemico dove preparava di persona unguenti contro i bubboni per la peste ma anche in grado di spianare le rughe del viso, oli contro la caduta dei capelli, colliri e callifughi. Le cronache raccontano che a trentasei anni, età considerata già avanzata visto che l'età media era di 45-50, Caterina avesse ancora la pelle fresca come quando era adolescente pur avendo avuto vita tutt'altro che facile e ben dieci gravidanze.
Questi ricettari nel Rinascimento non erano rari, ogni speziale (così erano chiamati all'epoca i farmacisti) aveva la sua raccolta di prescrizioni custodite gelosamente e tramandate di generazione in generazione, una sorta di "rimedi della nonna" a cui ricorrere in caso di bisogno e vendere anche a caro prezzo. Di gran moda erano gli elisir di lunga vita, composti di ogni ben di Dio: ambra, zucchero, scorse di cedro, radici di finocchio, semi d'anice, granati, smeraldi, perle, foglie di ruta e di salvia. Non si disdegnava anche l'aggiunta di rane, lucertole e sangue mestruale ed è forse questo che faceva si che all'occhio dei più la cosmesi si mescolava con la magia. Ne fece le spese anche la bella Caterina Sforza e l'incorruttibilità del suo fascino fu creduto dai suoi detrattori frutto di sortilegi e di pratiche che rasentavano la stregoneria. Possiamo solo immaginare che cosa penserebbero delle donne moderne, probabilmente saremmo tutte destinate al rogo !

giovedì 9 gennaio 2014

Isabella, la moglie di Rubens



Figlia di un nobile funzionario di Aversa e umanista, Isabella sposò il già famoso pittore Pieter Paul Rubens nel 1609. Per quell'occasione egli dipinse questo doppio ritratto conservato a Monaco in cui traspare non l'ufficialità del matrimonio ma il suo aspetto più sentimentale, intimo. I due sposi sono seduti sotto un pergolato di caprifoglio che nella tradizione popolare germanica era simbolo di resistenza, di lunga vita, quindi ben augurale alla buona riuscita e longevità del legame coniugale. La mano di Isabella poggia dolcemente su quella del suo sposo, era questo un gesto rituale e con valore giuridico, la cosiddetta <dextrarum junctio> che in antico rappresentava la formale promessa di matrimonio, ma qui diviene gesto d'affetto e amorevole. L'atmosfera è distesa, serena e quasi informale tanto che il pittore accavalla le gambe con fare naturale e abituale. Rimangono comunque ben visibili le differenze gerarchiche tra marito e moglie, Rubens infatti è seduto in una posizione più alta rispetto ad Isabella.
L'alto stato sociale della coppia è dimostrato dal loro ricco abbigliamento. Rubens indossa un abito secondo la moda del tempo in velluto operato marrone con calzoni al ginocchio, le maniche del giubbone sono in seta e il tutto impreziosito dall'ampio collo piatto in lino e pizzo; sulla testa un cappello in velluto nero su cui spicca una fibbia-gioiello. Isabella indossa un'ampia veste in seta con una grande gorgiera in merletto e il corpino in raso bianco con fiori gialli ricamati. Ai polsi due grandi bracciali in oro e pietre preziose a lastre ovali di identica fattura.
La coppia ebbe tre figli, la primogenita, Chiara Serena, morì a soli 12 anni. Anche Isabella morì giovane, a 34 anni, non è ancora chiaro se di peste o a causa di un male incurabile. Di lei ci restano altri ritratti che la raffigurano sempre con un dolce sorriso, gli occhi grandi e luminosi, l'espressione fiera di essere moglie e musa di un grande artista conteso dalle corti di tutta Europa.

domenica 5 gennaio 2014

Il talismano della regina





Mai regina di Francia suscitò tanta esecrazione come Caterina de' Medici, accusata di essere una strega, un'avvelenatrice, addirittura una ninfomane, donna priva di scrupoli e assetata di potere e a tale damnatio memoriae contribuirono gli scritti di Balzac e Dumas. Solo nel Novecento gli storici hanno rivalutato la figura di questa fiorentina andata sposa ad un uomo che non l'amava preferendole l'amante, la bella Diane de Poitiers, che si trovò fin troppo presto vedova a reggere le sorti di una grande nazione e a combattere gli intrighi di palazzo orditi da coloro che fin da subito l'avevano appellata con disprezzo "l'italien". Qualche anno fa, in occasione di una mostra a lei dedicata, è stato esposto un suo gioiello, una placca con incise delle formule, un talismano quindi.
I talismani (dal greco «telesmena», cosa consacrata) sono ancora oggi oggetti preparati appositamente seguendo specifiche relazione tra flussi astrali propiziatori e riportano, di solito, incise formule o raffigurazioni ma anche entrambi. Essi vengono indossati per fare da polo d’attrazione delle forze benevole, dunque hanno un'azione opposta agli amuleti che invece hanno il compito di respingere gli influssi negativi. Il talismano astrale di Caterina dei Medici, conservato alla Bibliothèque Nationale de France, a Parigi, che sembra la regina portasse sempre con sé, è un oggetto creato per attrarre potere e amore. Di forma ovale da una parte ha raffigurati Giove, l’aquila di Ganimede e un demone con la testa del dio egizio Anubis; sul retro l’immagine di Venere, dea della bellezza e dell'amore, affiancata dai nomi di demoni incisi tra i quali Asmodeo, demone del desiderio carnale, invocato di solito per ottenere l’energia specifica per conquistare l’amore di un’altra persona. 
Più che un mostro assetato di sangue basterebbe questo talismano per avere la prova di chi era veramente Caterina, una donna che per tutta la vita, orfana ancora in fasce, pedina di giochi politici, ha cercato disperatamente una sola cosa: essere amata.