moretta

mercoledì 27 febbraio 2013

La senza pari





 Intorno al 1515-20 Piero di Cosimo dipinse questo ritratto, oggi conservato al Museo Condé a Chantilly, raffigurante  la donna che nella Firenze di Lorenzo il Magnifico era detta “la senza pari”, ovvero Simonetta Cattaneo Vespucci. Amata da Giuliano de' Medici era considerata la più bella tra le fanciulle fiorentine tanto da diventare musa ispiratrice di Botticelli che la dipinse in molti dei suoi capolavori e del Poliziano che in una sua poesia ne celebra il “lieto viso” incorniciato da “crini d’oro”.
Quando Piero esegue il dipinto Simonetta era già morta di tisi a soli 23 anni nel 1476 e il pittore fu costretto ad usare una medaglia con la sua effige come modello. Il profilo della giovane si staglia sullo sfondo di un paesaggio in tempesta e ricco di richiami simbolici che rimandano alla sua morte prematura: l’albero secco a sinistra e le cupe nuvole del tramonto. Anche il serpente che si avvolge intorno alla collana d’oro che porta al collo rimanda al tema della morte ma anche alla rinascita, al tempo che si rinnova all’infinito, all’immortalità dunque per la sua capacità di cambiare pelle. Inoltre era anche simbolo di prudenza e intelligenza. Nell’intreccio dei capelli di Simonetta troviamo perle simbolo di castità e gioielli a forma di ghianda che rimandano alla quercia anch’essa simbolo di eternità. Il seno nudo non costituiva all’epoca un’indecenza, ricordava la “Venus pudica” e le Amazzoni, le leggendarie guerriere che combattevano a seno scoperto ed erano considerate particolarmente caste perchè si accoppiavano una volta l'anno. 
Simonetta quindi viene onorata con tutte le virtù che nel Rinascimento si richiedevano ad una donna - bellezza, purezza, intelligenza, prudenza - e ne si ricorda la bellezza immortale. Narrano le cronache che il giorno del suo funerale, adagiata su una lettiga coperta di fiori, Simonetta fu portata per le vie di Firenze a mostrare come neppure la malattia prima e la morte dopo erano riuscite ad alterare la sua bellezza, musa di pittori e poeti che con la loro arte ne hanno tramandato il ricordo fino a noi.

La stanza segreta di Michelangelo





Nel novembre del 1975, a Firenze, durante alcuni lavori nella Sagrestia Nuova della chiesa di San Lorenzo, fu scoperta una botola che conduceva in uno stretto vano sotterraneo le cui pareti erano tappezzate di disegni tracciati a carboncino. Subito gli storici dell’arte si misero a studiarli concludendo che alcuni erano sicuramente di Michelangelo. Raffigurano nudi, volti, arti, elementi architettonici, una testa di cavallo tutti abbozzati con mano esperta, disposti senza ordine, alla rinfusa. Alcuni sembrano ripensamenti da parte dell’artista ad opere già da lui portate a compimento come per esempio lo schizzo di due gambe che rimandano a quelle della statua di Giuliano de’ Medici duca di Nemours. 
Con molta probabilità questi disegni furono eseguiti tra l’agosto e l’ottobre del 1530, periodo in cui Michelangelo, perseguitato dai Medici per aver partecipato tre anni prima alla rivolta che li aveva cacciati da Firenze, aveva trovato rifugio nel convento di San Lorenzo dopo essere sfuggito ai sicari mandati da Baccio Valori. La botola scoperta nella sacrestia che conserva le stupende tombe medicee realizzate dallo scultore qualche anno prima e dove riposano Lorenzo il Magnifico e il fratello Giuliano assassinato nella congiura dei Pazzi, era stata murata da Giorgio Vasari più di trent’anni dopo il passaggio di Michelangelo.
 
 
 

venerdì 15 febbraio 2013

Palazzo Rucellai





Nel cuore del centro storico di Firenze, in via della Vigna Nuova sorge lo splendido palazzo Rucellai progettato da Leon Battista Alberti e costruito da Bernardo Rossellino intorno al 1445. La strada è così chiamata poiché in quel luogo posto fuori le mura della città un tempo si trovavano dei vigneti. Quando Firenze si ingrandì le vigne vennero sostituite da costruzioni prima di artigiani, poi di mercanti e infine di signori tra i quali i Rucellai diventati ricchi e potenti grazie al commercio delle stoffe. La storia di tale fortuna economica è alquanto singolare. Si racconta che un antenato, Alemanno del Giunta, durante un viaggio in Oriente, avendo avuto bisogno di fermarsi a causa di bisogni fisiologici, scese da cavallo e notò che un’erba che cresceva lì vicino da verde diventava violacea a contatto con la sua orina. Alemanno rimase molto sorpreso e decise di prendere un campione di quell’erba e di portarsela a Firenze dove sperimentò che era in grado di tingere i panni di un bel colore viola.
L’erba fu chiamata “oricella” e il suo impiego divenne massiccio come pure la sua coltura in un luogo in città che fu poi chiamato Orti oricellari. Lo stesso nome, Oricellari, fu assunto dalla famiglia di Alemanno. I suoi eredi con questo brevetto divennero ricchissimi, dediti alla produzione e al commercio di lane e sete di un caldo colore porpora, stoffe divenute assai richieste non solo in Italia ma anche all’estero. In seguito il nome Oricellari fu cambiato in Rucellai.
Fu Giovanni Rucellai a commissionare a Leon Battista Alberti il progetto di un palazzo degno della ricchezza e del prestigio della sua famiglia. Il suo fu un progetto innovativo che si allontanava dalle dimore signorili fiorentine ancora di chiara impronta medievale, con i pesanti bugnati di facciata quali si potevano vedere a Palazzo Medici e a palazzo Pitti. Il suo progetto prevedeva una costruzione di grande eleganza, ricca di lesene, architravi, cornici e ampie finestre. La panchina a sedile in pietra serena, che serviva anche per montare a cavallo, era decorata a losanghe. Palazzo Rucellai doveva riflettere il carattere del suo proprietario, quindi doveva essere ideato per far intendere che era la residenza di un mercante senza mire di dominio e potenza ma, che pago delle sue ricchezze e della sua rispettabilità, voleva dare alla sua casa un aspetto più dilettevole che severo. La storia ha dato torto a Giovanni che in realtà di mire politiche ne aveva eccome tanto da riuscire a far sposare il figlio Bernardo a Lucrezia de Medici, detta familiarmente Nannina, e sorella di colui che porterà Firenze ad essere la capitale artistica, economica e politica del Rinascimento: Lorenzo il Magnifico.

lunedì 11 febbraio 2013

Le maioliche dell'amore





Intorno agli anni venti del Cinquecento a Deruta e a Faenza nasce la moda della cosiddetta ceramica d'amore, piatti, vassoi, saliere, vasi e coppe di basso piede, dove veniva dipinto il ritratto a mezzo busto di una fanciulla accompagnato da un cartiglio col nome e l'appellativo di "bella" (ma anche "gentile" e "diva").
Venivano di solito offerti dal fidanzato all'inizio del corteggiamento, come simbolo di ammirazione ed espressione del sentimento amoroso suscitato, ma anche prima del matrimonio durante lo scambio di doni e conservati poi in casa per ricordo. Oltre ai ritratti gli oggetti erano decorati con scene di mani che si stringono, cuori trafitti e motti. Pare che non fossero ritratti reali, che avessero cioè i tratti della donna a cui erano destinati poichè gli stessi modelli li ritroviamo utilizzati più volte, cambia solo il nome. Erano di solito ceramiche prodotte in serie e rari sono gli oggetti che raffigurano tutti e due i promessi sposi o ritartti maschili.






venerdì 8 febbraio 2013

Il bacio




Scriveva una poetessa da poco scomparsa, Antonella Angeloni Accatino: Bacia il tuo uomo ragazza. Bacialo e bacialo ancora. Il mondo, questa volta, può fermarsi ad aspettare e osservando il quadro di Hayez, dipinto nel 1859, si ha proprio l'impressione che tutto si sia fermato, compreso lo spettatore, ad osservare i due giovani nel loro attimo di abbandono all'estasi. Delineate con contorni netti e fin nei minimi particolari le due figure rimandano alle opere rinascimentali ma la passione di quel bacio, l'abbandono languido della fanciulla tra le braccia del suo amato e la tenera carezza di lui creano quell'atmosfera tipica del periodo romantico italiano che rimanda a Manzoni e a Foscolo, a Leopardi e ad Aleardi ma anche al melodramma e alla musica immortale di Verdi. Minuziosi i dettagli: la luce che proviene da sinistra illumina l'abito in raso della ragazza esaltandone le numerose e realistiche pieghe, l'ombra dei due giovani che si disegna sulla parete e sulle scale, il contorno scolpito dell'apertura alle loro spalle. Essi possono essere Paolo e Francesca oppure Romeo e Giulietta, Tristano e Isotta ma anche due semplici innamorati nel momento dell'incontro o colti nell'attimo prima del distacco in cui si vorrebbe dilatare il tempo facendo si che i baci non finiscano mai e tornano alla memoria gli splendidi versi di Catullo: ... Dammi mille baci, poi cento, poi mille altri, poi ancora cento, poi sempre altri mille, poi cento... 
Il pubblico dell'epoca però interpretò la scena in termini politici leggendovi l'addio di un patriota condannato all'esilio alla sua amata. E' il periodo dei moti rivoluzionari, delle lotte per liberare l'Italia dal giogo degli austriaci invasori e renderla finalmente unita e indipendente. Un bacio struggente dunque, carico di dolore perchè forse l'ultimo.


mercoledì 6 febbraio 2013

Amore e Psiche



Narra Apuleio nelle sue Metamorfosi che un re aveva tre figlie di impareggiabile bellezza ma tra esse spiccava la più piccola, Psiche, talmente bella da essere scambiata per la dea Venere. A quest'ultima la cosa non piaceva affatto e presa dalla gelosia pregò il figlio Cupido, dio dell'amore, di far si che la fanciulla arrivasse a sposare il più miserabile e perfido degli uomini. Il padre di Psiche, consultato l'oracolo di Apollo sulla sorte della figlia, ottenne come responso la notizia che per lei era destinato il peggiore dei mariti e che le nozze sarebbero state funeste, quindi consigliava di vestire Psiche da sposa, di portarla su un'alta montagna e abbandonarla al suo destino. Il re, col cuore gonfio di dolore ma ubbidendo alla volontà degli dei, così fece. lasciata sulla cima della montagna Psiche all'improvviso fu sollevata da Zefiro, il vento primaverile, e portata in volo in un sontuoso palazzo dalle colonne d'oro e con bellissimi soffitti in legno e avorio. Qui cominciò ad aggirarsi tra le splendide sale e a domandarsi chi fosse il padrone del palazzo, poi all'improvviso udì delle voci che le si rivolsero rispettose invitandola a comandare loro qualunque cosa desiderasse. Così servita da quelle ancelle invisibili Psiche fece il bagno, cenò ad una tavola colma di pietanze gustose e indine fu accompagnata in una grande stanza da letto dove si addormentò. Fu svegliata da un'altra voce, questa volta di uomo, una voce dolcissima che le disse di essere il suo sposo e le si sdraiò accanto facendo si che lei potesse avvertire i tratti della sua forma corporea pur non vedendolo, poi l'amò. Ogni notte la presenza misteriosa entrava nella sua stanza e l'amava con passione poi un giorno lo sposo invisibile avvertì Psiche che le sue sorelle sarebbero venute sulla cima della montagna a piangere la sua presunta morte ma lei non avrebbe dovuto accorrere a rivelare la verità altrimenti sarebbe stata vittima di grandi disgrazie. Vennero infatti le sorelle piangendo la perdita della fanculla; lei avrebbe voluto rincuorarle e pregò il suo sposo di permetterle di lenire il loro dolore e le fu concesso di portarle nel palazzo ma di non seguire nessuno dei consigli che esse le avrebbero dato. Così fu e come era accaduto con lei Zefiro trasportò le sue sorelle nel palazzo e potè riabbracciarle. Psiche fu travolta dalle domande su chi era il suo sposo ma la fanciulla fu evasiva. In più occasioni le sorelle tornarono a far visita a Psiche maturando un'invidia feroce verso di lei che viveva in quel palazzo sontuoso e bellissimo, amata da uno sposo che non si faceva mai vedere in viso. Cominciarono ad insinuare in Psiche il dubbio: chi era dunque questo marito? Un dio? Un mostro orribile? Le sorelle cominciarono a convincerla che doveva assolutamente conoscere la verità, approfittare del sonno di lui e spiarne finalmente. Quella notte Psiche attese che il suo sposo si addormentasse, poi sollevò uan lampada ad olio e riuscì finalmente a vederlo in volto: riconobbe il bellissimo Cupido e rimase rapita a contemplarlo non accorgendosi che una goccia d'olio, cadendo dalal lampada, bruciò il dio che, resosi conto di quanto accadeva, scomparve subito volando via. Disperata la fanciulla fuggì dal palazzo.
La notizia di quanto accaduto giunse alle orecchie di Venere che ordinò di ritrovare Psiche che ancora considerava sua rivale e di condurla al suo cospetto. Portata davanti alla dea la fanciulla dovette sottoporsi ad una serie di prove. Cupido che mai aveva cessato di amarla pregò Zeus di rendere Psiche immortale e di unirli in matrimonio e il padre degli dei acconsentì. Dalla loro unione nacque una figlia che ebbe nome Voluttà.
Grandissimo fu il successo di questa favola che molti artisti vollero tradurre in immagini a cominciare da alcuni cassoni nuziali fiorentini eseguiti nel Quattrocento, da Raffaello e dalla sua scuola e da Jacopo Zucchi, che dipinse nel 1589 una grande tela commissionatagli probabilmente per le nozze di Ferdinando de' Medici con Cristina di Lorena e oggi conservata alal Galleria Borghese di Roma. Il pittore ritrae il momento preciso in cui Psiche scopre chi è il suo misterioso sposo. In piedi sul letto colmo di fiori e cuscini di broccato, la fanciulla, coperta solo di gioielli, ha nella mano destra un pugnale pronta a difendersi nel caso avesse visto di trovarsi davanti un mostro e nella sinistra la lampada ad olio che solleva in alto scoprendo Cupido ancora addormentato. Accanto a lui su un tavolo stanno la faretra con le frecce, l'arco e un cane simbolo di fedeltà. Sulla testata del letto è raffigurata uan figura femminile che ricorda la Notte scolpita da Michelangelo nella Sacrestia Nuova di San Lorenzo a Firenze dove è sepolto Lorenzo il Magnifico.

lunedì 4 febbraio 2013

Un anello pegno d'amore




L'anello è fin da sempre considerato non solo un ornamento ma anche un pegno, una promessa d'amore. Durante la ricognizione nel 1945 della sepoltura di Eleonora di Toledo, moglie del Granduca di Toscana Cosimo I, tumulata nelle Cappelle Medicee a Firenze, furono recuperati alcuni anelli trovati alle dita della salma e oggi conservati al Museo degli Argenti di Palazzo Pitti. Tra essi un monile in oro finemente cesellato con al centro un rubino e ai lati due piccoli smeraldi; chiudono l'anello due mani congiunte e la loro presenza indica che il gioiello voleva simboleggiare il legame amoroso tra Eleonora e il marito. Gli anelli con le "mani in fede" erano utilizzate già all'epoca dei Romani e venivano indossati al momento del fidanzamento e del matrimonio. La presenza delle pietre - il rubino e gli smeraldi - non è casuale poichè essi rano tipici dei monili che lo sposo donava alla sua promessa: al rubino veniva attribuita la proprietà di accrescere ogni prosperità oltre ad essere equiparato per il suo colore rosso al cuore, sede dei sentimenti e quindi dell'amore; lo smeraldo aveva invece il potere di conservare la bellezza del volto e di mantenere caste le persone che se ne adornavano. Quindi erano pietre di buon auspicio per la felicità e la buona riuscita del matrimonio garantendo amore, rispetto, prosperità.
Il legame tra i due granduchi di Toscana era, a detta delle cronache, molto forte, il loro fu un matrimonio d'amore, rallegrato dalla nascita di molti figli ma anche funestato da grandi dolori come l'uccisione della figlia Isabella da parte del marito violento e la morte di due maschi per febbre malarica, Giovanni e Garcia. Raccontano le cronache che nell’ottobre 1562 Cosimo arrivò con la corte nel castello di Rosignano, vicino Livorno. Con lui erano i tre figli minori, Giovanni, Garcia e Ferdinando, e la moglie Eleonora malata ai polmoni. Quello che si prospettava come un soggiorno di svago e di riposo si trasformò ben presto in una tragedia. Un’epidemia di febbri malariche colpì i giovani principi. Giovanni fu il primo a morire a soli 19 anni. Secondo gli usi del tempo il corpo fu imbalsamato e trasferito a Firenze nella basilica di S. Lorenzo per la tumulazione e un solenne funerale.  Meno di un mese dopo morì Garcia. Aveva 15 anni. Solo Ferdinando sopravvisse. Il dolore di tutti fu gradissimo ma più di ogni altro non seppe darsi pace Eleonora. La tosse che da tempo l’affliggeva riprese più forte di prima e il perdurare della febbre finì per stroncare il suo fisico debilitato da undici parti e consunto dalla tubercolosi e dai dispiaceri. Eleonora si spense cinque giorni dopo il figlio Garcia fra le braccia del marito. Fu sepolta con uno splendido abito in raso di seta color giallo oro decorato sul corpetto e sulla gonna da ricamo in oro filato su una balza di velluto color marrone scuro.

Quello che rimane dell'abito funebre di Eleonora recentemente restaurato

Il corsetto

sabato 2 febbraio 2013

Il preraffaellita e la sua musa





Dante nel V canto dell'Inferno si trova nel girone dove espiano le loro colpe i lussuriosi, "i peccator carnali", coloro che hanno fatto prevalere l'istinto sulla ragione. E' un luogo buio, dove si odono pianti, bestemmie e lamenti ed è battuto da una tepesta di vento continuo che trascina via le anime con violenza. Tra esse Dante ne scorge due abbracciate, sono Paolo Malatesta e Francesca da Polenta, figlia del signore di Rimini, e ascolta commosso la loro tragica storia. In vita erano cognati ma li colse un amore travolgente a cui fu impossibile opporsi ma scoperti da Gianciotto, fratello di Paolo e marito di Francesca, furono brutalmente uccisi.
Nel 1855 Dante Gabriel Rossetti, uno dei fondatori della Confraternita dei Preraffaelliti, dipinse un quadro che rievocava i due antichi amanti. I Preraffaelliti erano giovani artisti che accortisi dell'empasse creativa in cui si trovava la pittura vittoriana, troppo accademica e priva di rinnovamento, decisero di andare contro gli schemi artistici ormai obsoliti e creare una nuova corrente artistica che non si rifacesse ai grandi del Rinascimento ma recuperasse invece i pittori precedenti considerati minori, Cimabue e Giotto prima di tutto, la cui maniera giudicavano più spontanea e vera.
Gabriel Rossetti era figlio di un esule italiano e intorno al 1850 conobbe una ragazza di umile estrazione ma sensibile e talentuosa, poetessa e pittrice lei stessa, iniziando con lei una collaborazione creativa e una dolorosa storia d'amore. Si chiamava Elizabeth Eleonor Siddal e aveva lunghissimi capelli rossi, occhi verdi e pelle d'avorio. Divenne ben presto musa ispiratrice, amante e molti anni dopo moglie di Rossetti. Nella sua opera che rievoca l'amore di Paolo e Francesca, palesatosi, come canta il Poeta, durante la lettura di un libro sulle leggende arturiane (Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse; / soli eravamo e sanza alcun sospetto. / Per più fiate li occhi ci sospinse /  quella lettura, e scolorocci il viso; / ma solo un punto fu quel che ci vinse. / Quando leggemmo il disiato riso / esser basciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi basciò tutto tremante. / Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: / quel giorno più non vi leggemmo avante) Rossetti ritare lui ed Elizabeth dai lunghi capelli ramati. La loro relazione si consumò tra arte, poesia, laudano, litigi, alcool e tradimenti. Il loro matrimonio durò appena due anni stroncato dalla morte della loro bambina e dal suicidio di Elizabeth. Pur amando altre donne Gabriel non la scorderà mai e ne rimarrà ossessionato per tutta la vita. Ormai in preda alle droghe e alla depressione una notte di ottobre del 1869 fu spinto dal suo agente letterario Howell a far disseppellire il cadavere della moglie nel cimitero londinese di Highgate. Nella sua bara Gabriel aveva riposto l'unica copia delle poesie inedite da lui scritte ma trovandosi in gravi problemi finanziari, era necessario recuperare il manoscritto per pubblicarlo e ricavarci qualcosa. Rossetti non se la sentì di andare al cimitero e assistere al recupero del libro, ci andò il suo agente (noto mentitore) che raccontò di aver trovato Elizabeth incorrotta, intatta nella sua bellezza e con i suoi ancora splendidi capelli rossi che avevano continuato ad allungarsi. Di sicuro il bel volto della giovane morta ad apppena 32 anni rimane incorrotto e splendido nelle molte tele che la ritraggono, icona indiscussa del movimento Preraffaellita.

venerdì 1 febbraio 2013

L'amore sei secoli fa




Febbraio è il mese dedicato all'amore, il mese in cui si festeggia san Valentino il vescovo di Terni vissuto nel III secolo tradizionalmente invocato dagli innamorati. Ed è dell'amore nell'arte che voglio parlare esaminando, a partire da oggi, una serie di quadri che rimandano a questo sentimento che è rimasto sempre lo stesso ed ha attraversato i millenni della storia dell'uomo. L'arte parla agli occhi degli osservatori di amori travolgenti, casti, o esplicitamente erotici, di amori tragici e amori cortesi servendosi della storia, del mito e dei simboli.
Un uomo e una donna posti una di fronte all’altro, una camera da letto con mobili intagliati, una finestra aperta che lascia entrare la luce del sole al suo sorgere; sul davanzale una mela, i grani trasparenti del Rosario appesi ad un chiodo e sul pavimento di legno zoccoli di sughero. Sembrerebbero, a prima vista, due sposi attorniati dagli oggetti quotidiani ma non è solo questo. Siamo a Bruges nel 1434 in casa del ricco commerciante Giovanni Arnolfini. Assieme alla moglie, Jeanne, egli sta posando per il pittore fiammingo Jan van Eyck, alla presenza di un testimone (come si vede nello specchio rotondo alla parete di fondo e incorniciato da dieci storie della Passione).
Perché Giovanni ha deciso di farsi ritrarre nell’intimità dell’alcova? Perché la stanza sembra così in disordine? I due coniugi si tengono per mano; la donna, vestita con un prezioso abito verde bordato di pelliccia, volge timidamente lo sguardo verso il marito il quale, con la mano destra sollevata quasi in segno di benedizione, è volto verso l’osservatore come a farlo partecipe di qualcosa per lui molto importante. Sta, infatti, facendo alla sua sposa una promessa d’amore e di fedeltà ed ha voluto fissare l’avvenimento sulla tela. La presenza dei testimoni tra i quali l’artista che si firma in latino sopra lo specchio tondo "Johannes de Eyck fuit hic" ("Giovanni de Eyck era presente"), dà all’immagine validità legale, al pari di un documento scritto. Van Eyck si sofferma sugli oggetti che si trovano nella stanza e vi cela significati simbolici. Gli zoccoli, che sembrano trovarsi lì per caso, si ricollegano al libro dell’Esodo, quando Mosè, di fronte al rogo infuocato, sente la voce di Dio che gli intima di togliersi i sandali perché sta camminando su una terra sacra, e anche la camera nuziale, dove di solito avviene il concepimento e quindi la creazione di una nuova vita, è da considerarsi anch’essa sacra. La mela sul davanzale evoca il peccato originale e mette in guardia da ogni comportamento peccaminoso. Il cane in primo piano, posto tra i due coniugi, simboleggia la fedeltà e infine la luce che entra dalla finestra, simbolo dello Spirito Santo che santifica l'unione della coppia.

Antichi dolci, moderna bontà

















 Per sapere che tipo di dolci i nostri antenati erano soliti gustare a fine pasto o durante i banchetti organizzati per le feste comandate, Carnevale o ricorrenze familiari come battesimi e matrimoni, possiamo chiedere aiuto alle numerose "nature morte", genere artistico particolarmente amato in epoca barocca e nel Settecento.
Tra i pittori specializzati in questo genere c'era il napoletano Tommaso Realfonso, detto Masillo (1677-1743). In una tela conservata a Roma in una collezione privata si vedono appoggiati su una tavola due vassoi contenenti a sinistra dei biscotti che assomigliano alle moderne zeppole di patate o anche a quelle che a Napoli chiamano gli "scauratielli", e al centro dolci dalla forma rettangolare decorati con scorze di arancia candita che ricordano i "raffioli" ricoperti di glassa allo zucchero. Biscotti di pasta dolce, fritti o fatti al forno e passati nello zucchero o glassati si trovano nella tradizione dolciaria di altre regioni italiane, per esempio molto simili anche nella forma a goccia o tonda come si può vedere nel primo vassoio a sinistra sono i "torcetti" piemontesi e i taralli pugliesi oppure le molte varietà di ciambelline.
Nel Seicento a Napoli erano molto apprezzati piccoli dolcetti spesso ripieni di miele, confettura di frutta o crema, quelli più ricercati erano prodotti nei monasteri e venivano acquistati dall'aristocrazia e dalla ricca borghesia, serviti nei salotti accompagnati da rosoli, zabaioni e altri liquori dolci